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Distribuito in Italia con un titolo discutibile, Blood Story (Let me in nella versione originale) di Matt Reeves è stato erroneamente indicato come il remake del film svedese uscito nel  2008 (Let the right one in, distribuito con il titolo Let me in, diretto da Tomas Alfredson) e basato sul romanzo omonimo di John Ajvide Lindqvist, che ha curato anche la sceneggiatura del film.
In realtà si tratta di una trasposizione cinematografica piuttosto fedele del romanzo di John Ajvide Lindqvist intitolato proprio Let me in (Lasciami entrare), ma il paragone tra i due film è comunque inevitabile. 
Il primo Let the right one in ha lasciato un pò l'amaro in bocca: non tutti hanno digerito la sensazione di solitudine e isolamento evocate dal paesaggio nevoso e dai colori freddi, l'apparente 'asetticità' delle scene, quasi del tutto prive di sangue, diverse da ciò che ci si potrebbe aspettare parlando di un vampiro e invise a quanti amano un cinema horror a base di puro splatter, pur riconoscendo alla pellicola una innegabile eleganza. Trainato dalle dichiarazioni di Stephen King che lo definisce (a torto o a ragione) «il miglior horror americano degli ultimi 20 anni» e dall'interpretazione della bravissima Chloe Moretz, Blood Story riesce invece a mettere d'accordo tutti. I nomi dei protagonisti e l'ambientazione sono diversi da quelli del romanzo, benchè la storia sia assolutamente aderente ad esso: Oskar e Eli diventano Owen e Abby; da Blackberg (sobborgo di Stoccolma) ci trasferiamo a Los Alamos (Nuovo Messico). Owen è un bambino molto solo, vittima di bullismo a scuola e trascurato dalla madre, troppo presa dai suoi problemi ed emotivamente fragile, e dal padre, con il quale comunica esclusivamente per telefono. Il ragazzo fa la conoscenza della nuova vicina, Abby, che vive con un uomo che sembra essere suo padre. Gli eventi e l'abilità di Abby nel manipolare il suo fragile animo lo porteranno ad una scelta di esistenza radicale.

Pare che lo stesso Lindqvist abbia espresso il suo apprezzamento per la scelta interpretativa del regista, che ha puntato su tratti più umanizzanti che dettati dal puro istinto per la caratterizzazione di Abby (il carattere compassionevole nei confronti di Owen, il suo comprendere il bisogno di socializzazione del ragazzo ma non avere per natura i mezzi per soddisfarlo). 

Un successo di botteghino assolutamente meritato. 


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