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Ho scritto questo articolo all'inizio di quest'anno quando ho saputo della riconferma della seconda serie, in arrivo questo ottobre su FOX. Ovviamente non vedo l'ora!

Il genio vincente di Ryan Murphy e Brad Falchuk (già padri dei fortunatissimi Nip/Tuck e Glee) ha da poco sfornato il nuovo horror drama American Horror Story, premiato con un Satellite Award nel 2011 e con un Golden Globe nel 2012 come miglior serie di genere.

La serie prodotta da FX Networks ruota attorno al malessere vissuto dalla famiglia Harmon (i coniugi Ben e Vivien e la figlia adolescente Violet), in crisi per via del tradimento del capofamiglia ai danni della moglie. Lo psichiatra Ben, spinge perché la famiglia si trasferisca da Boston a Los Angeles per ricominciare una nuova vita, dopo aver acquistato quella che, in tutti i giri turistici dell’orrore della città (con tanto di tema musicale tratto da un vecchio film su Dracula), è conosciuta come la casa dell’omicidio. All’interno della casa vivono presenze che ostacolano il raggiungimento dell’ armonia agognata dai coniugi Harmon, i quali si troveranno coinvolti loro malgrado in alterchi generati da vecchi dissapori, inganni e omicidi, il tutto trainato dall’improvvisa gravidanza di Vivien che si ipotizza destinata a generare un nuovo anticristo, poiché frutto di unione con un fantasma. La vicina di casa Constance Langdon (l’ottima Jessica Lange, di recente premiata ai Golden Globe per la sua magistrale interpretazione) e il figlio Tate fungono da tramite tra la famiglia ed un passato che si rifiuta di restare dimenticato e continua a fondersi con il presente, tanto da non riuscire più a distinguere i vivi da chi non lo è. Gli Harmon torneranno ad essere una vera famiglia solo dopo aver abbandonato le loro spoglie mortali in favore di una nuova (eterna) vita all’interno della casa.

La sigla di testa (firmata dall’artista Kyle Cooper, già autore della sigla di The Walking Dead e di Se7en) apre gli episodi creando un’atmosfera di assoluta inquietudine. Abbandonati i canoni di eleganza proposti da serial di genere come I fantasmi di Bedlam, l’opera di Cooper punta su qualcosa di più grezzo, dalle atmosfere cupe e suggestive: immagini di feti in barattolo, teschi, bambini ritratti in pose mortuarie, una

figura con delle cesoie in mano, un vestito di battesimo (tutti elementi che assumeranno un significato preciso nel corso della serie) e un tema musicale insistentemente ronzante e stonato.

La seconda stagione è già stata confermata per 12 episodi grazie all’enorme successo di pubblico ottenuto. In un’intervista rilasciata al sito http://americanhorrorstoryitalia.blogspot.com/  Ryan Murphy rivela alcune importanti decisioni prese per la realizzazione del nuovo ciclo, che sarà nuovo in tutto e per tutto: la vicenda della famiglia Harmon è conclusa. Il tema centrale della prima stagione era il tradimento, la seconda avrà un nuovo tema, nuovi personaggi, una nuova storia. Ma la vera innovazione, che probabilmente cambierà il modo di concepire la serialità americana, è la probabile introduzione nel cast di attori cinematografici, fino ad ora spesso protagonisti di semplici e poco impegnativi cameo. Il motivo per cui è stato possibile scritturare Jessica Lange, che non ha mai voluto impegnarsi in progetti a lungo termine per non precludersi altre occasioni lavorative, è proprio il cambiamento sostanziale dei tempi di lavorazione di una serie televisiva: ormai è possibile girare un’intera stagione in 3 mesi e mezzo al massimo, tempistica comune al periodo di lavorazione di un film. Questo potrebbe dare la possibilità a chi voglia tentare anche la strada televisiva di far parte di un cast regolare non dovendo per forza mettere da parte i suoi impegni cinematografici. Un bel passo avanti dall’epoca delle vecchie soap opera.

Sarà l’inizio di un ulteriore ibridazione?


 
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Distribuito in Italia con un titolo discutibile, Blood Story (Let me in nella versione originale) di Matt Reeves è stato erroneamente indicato come il remake del film svedese uscito nel  2008 (Let the right one in, distribuito con il titolo Let me in, diretto da Tomas Alfredson) e basato sul romanzo omonimo di John Ajvide Lindqvist, che ha curato anche la sceneggiatura del film.
In realtà si tratta di una trasposizione cinematografica piuttosto fedele del romanzo di John Ajvide Lindqvist intitolato proprio Let me in (Lasciami entrare), ma il paragone tra i due film è comunque inevitabile. 
Il primo Let the right one in ha lasciato un pò l'amaro in bocca: non tutti hanno digerito la sensazione di solitudine e isolamento evocate dal paesaggio nevoso e dai colori freddi, l'apparente 'asetticità' delle scene, quasi del tutto prive di sangue, diverse da ciò che ci si potrebbe aspettare parlando di un vampiro e invise a quanti amano un cinema horror a base di puro splatter, pur riconoscendo alla pellicola una innegabile eleganza. Trainato dalle dichiarazioni di Stephen King che lo definisce (a torto o a ragione) «il miglior horror americano degli ultimi 20 anni» e dall'interpretazione della bravissima Chloe Moretz, Blood Story riesce invece a mettere d'accordo tutti. I nomi dei protagonisti e l'ambientazione sono diversi da quelli del romanzo, benchè la storia sia assolutamente aderente ad esso: Oskar e Eli diventano Owen e Abby; da Blackberg (sobborgo di Stoccolma) ci trasferiamo a Los Alamos (Nuovo Messico). Owen è un bambino molto solo, vittima di bullismo a scuola e trascurato dalla madre, troppo presa dai suoi problemi ed emotivamente fragile, e dal padre, con il quale comunica esclusivamente per telefono. Il ragazzo fa la conoscenza della nuova vicina, Abby, che vive con un uomo che sembra essere suo padre. Gli eventi e l'abilità di Abby nel manipolare il suo fragile animo lo porteranno ad una scelta di esistenza radicale.

Pare che lo stesso Lindqvist abbia espresso il suo apprezzamento per la scelta interpretativa del regista, che ha puntato su tratti più umanizzanti che dettati dal puro istinto per la caratterizzazione di Abby (il carattere compassionevole nei confronti di Owen, il suo comprendere il bisogno di socializzazione del ragazzo ma non avere per natura i mezzi per soddisfarlo). 

Un successo di botteghino assolutamente meritato. 


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